
Tenere tutto il mondo sulle spalle. Non solo un mito, quello di Atlante, ma anche la condizione in cui vivono molti di noi. Uno stato eroico, ma forse anche destinato a “fallire”. E c’è un fallimento che non è del tutto negativo…
Il mito di Atlante è forse uno di quelli che riscontro più spesso quando mi ritrovo a lavorare con chi mi chiede un supporto con Le Stanze dell’Immaginazione o con incontri individuali. Capita spesso perché rappresenta, con un’immagine eterna, la storia di chi crede di tenere tutto il mondo sulle proprie spalle, da solo.
“La grandezza di un uomo risiede per noi nel fatto che egli porta il suo destino come Atlante portava sulle spalle la volta celeste” – Milan Kundera
Ma questa dinamica, rappresentata del titano Atlante, è fallimentare, così come lo erano gli atti degli Eroi Titanici di una parte della nostra letteratura.
D’altronde oggi si parla spesso di “fallimenti”: il fallimento è una caduta (dal lat. fallere, come anche nell’inglese odierno con “to fall”). Nulla di più naturale per la nostra società che, cercando di rendersi “globale” quando non era pronta, invece che avvicinare il tessuto umano, lo ha strappato, facendo precipitare l’individuo in un baratro di solitudine e timore dell’altro.
Viene quindi da chiedersi: se vivo il mito di Atlante, una storia destinata al fallimento, come la risolvo?
Il mito di Atlante
Bisogna anzitutto sapere qualcosa in più sul mito di Atlante. Come accade spesso per i miti, la nascita del Titano è di difficile definizione: d’altronde il mito non ha la pretesa di essere “storico”, ma poetico e narra accadimenti interiori o naturali, che non possono stare in nessun modo inglobati nella temporalità, ma odorano di eterno.
Quel che si sa di Atlante è che era un Titano, un essere, quindi, figlio di Crono, uno di quelli che “stavano sulla Terra prima degli dèi”. Si sa anche che nel conflitto tra Titani e Dèi si schierò dalla parte di Crono e che – come sconfitto – venne punito da Zeus in modo particolare: fu destinato a reggere la Terra sulle sue spalle (alcuni riportano “solo la volta del cielo”).
Si dice poi che fu anche pietrificato.
L’Eroe Titanico
La figura dell’Eroe Titanico appare nello Sturm Und Drang (1770), movimento di una Germania letteraria che si opponeva all’intellettualismo illuministico cercando di riportare in vita, oltre alla ragione (dei “lumi”), anche l’intuito e la sensibilità. Naturalmente si parla degli albori del Romanticismo.
In sé, l’Eroe titanico, comprende l’universo intero, quel cielo e quelle stelle che – rispettivamente – Atlante tiene sulle sue spalle e di cui è padre (es. le Pleiadi). Capace di un sentire profondo, un patimento d’anima che lo porta a vivere il dramma non solo individuale, ma anche universale, di cui spesso si fa portatore.
Questa dinamica viene anche chiamata “prometeismo”, perché ricorda dell’impresa di Prometeo (un altro titano) che rubò il fuoco agli dèi per donarlo agli uomini. E’ la dinamica di un individuo che si erge verso una missione impossibile per l’uomo, ma anche necessaria: impossibile per egli da evitare, perché sentita, patita, nelle regioni dell’Anima.
Il mito di Atlante e la Filosofia del Profondo
Operiamo ora una riflessione su questo mito. Ovvero andiamo a vedere in che modo definisce un individuo nella sua profondità e come lo porta ad agire nella sua realtà.
Anche se la nostra psychè – come diceva Hillman – è greca, mi piace avvicinare il dramma rappresentato da Atlante e Prometeo, nella mitologia greca, alla nostra cultura, ovvero alla mitologia ebraico-cristiana laddove è rappresentato sicuramente dal Cristo.
La figura segreta che si nasconde e si svela in questi miti è quella del sacrificio – ahimè in senso negativo.
L’Eroe Titanico è un espiatore: ciò che sottende alla prassi di considerarsi “soli a portare il peso del mondo” è l’idea che caricarsi di ogni responsabilità (termine che preferisco alla “colpa”) sia l’unica via possibile.
Lo sappiamo, ogni mattina al risveglio, che sarà impossibile “fare tutto”, eppure ci imbarchiamo. E la sera, prima di quella pausa al mondo, quella parentesi del dormire (che è un po’ morire), ricominciamo a tessere una realtà ideale, perché – si sa – “domani” sarà un giorno diverso, dove tutto è possibile.
In questo incessante muoversi verso una missione impossibile, l’Eroe Titanico vive una dualità: da una parte la necessità di quello che sta facendo visto come inderogabile (“se non io, chi altri?”), dall’altra quella temuta zona di pausa in cui è chiamato a riflettere sull’impossibilità di quanto sta facendo (“non posso, ma devo”). Ed in questa dualità si sente lacerato come Prometeo, pietrificato come Atlante.
Il fallimento come soluzione
Un’idea possibile.
Questo è quello che manca all’Atlante di turno: un’apertura. Il suo mondo si è chiuso, la sua caduta – lo dicevo in incipit – lo ha portato a guardarsi attorno e a trovarsi nudo (Adamo ed Eva), solo e… sporco, fallimentare, destinato a morire.
Il dramma fondamentale dell’Eroe titanico che vive il mito di Atlante non è un misto di solitudine e necessità.
Il titanismo, appunto.
Una soluzione possibile è trovare qualcuno che possa aiutarci nel nostro compito, così come anche Atlante fece, trovando supporto in Eracle.
Non uno qualsiasi, quindi, ma l’Eroe degli Eroi, colui che non fallisce mai e compie il ciclo delle evoluzioni (le 12 fatiche).
Ma il supporto è solo momentaneo, perché il destino è legato all’individuo e fintanto che facciamo riferimento ad un mondo ideale, di speranze (“domani tutto è possibile”), siamo destinati a ricadere nel dramma.
Lo dicevo: non serve un’idea, ma un’idea possibile.
Ecco perché propongo il fallimento come soluzione reale e definitiva: perché a volte i drammi non si risolvono, si superano, e per farlo bisogna ammettere il fallimento.
Accasciati, così come la “donna” raccontata da Clarissa Pinkola Estès nelle sue “Donne che corrono coi Lupi”, ritroviamo la forza: non una forza interiore, ma la forza dell’abbraccio, della carezza e dell’Amore. La forza e la bellezza nascoste dietro una mutualità e una filosofia di pensiero al femminile.
D’altronde Atlante è uomo e tiene il mondo sulle spalle.
Se fosse stato donna, chissà, magari lo avrebbe tenuto in grembo…
E questo ci invita a riflettere che magari a volte la modalità maschile del “fare”, che non può e non sa arrendersi all’impossibilità, può e deve lasciare spazio ad un atteggiamento femminile di accoglienza, accettazione e… quella leggerezza data dal sapersi “accettare” o per-donare.
Forse solo in questo modo quel “cadere” del fallimento non verrà visto in modo negativo (perché giudicato dalle categorie del giusto e dello sbagliato “socialmente accettate”), ma come un falling in love, un cadere in Amore.
Trovi che questo mito “faccia per te”?
Se vuoi conoscere il tuo mito o credi che questo sia il tuo e vuoi lavorare per “superarlo”, puoi chiedermi un incontro individuale, ti basta compilare questo form:
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