
Quali sono le caratteristiche che ci distinguono come Specie? La posizione eretta, il pollice opponibile, la facoltà di creare strumenti che risolvano le nostre mancanze? Sembra di no. La scienza dice che alla base della nostra identità di Sapiens ci sono le facoltà del cuore, come l’Immaginazione e la Compassione.
Recentemente ho letto un interessante articolo di Dacher Keltner founder director del GreaterGood Center, il centro di ricerca di Psicologia Positiva della Berkley. L’articolo non è nuovo (datato 2012), ma fa ancora molto effetto: parla della Compassione come carattere distintivo della nostra Specie e lo fa in termini scientifici.
In questo articolo te ne voglio parlare e inoltre ho aggiunto una breve riflessione di tipo antropologico, che è facile desumere da qualsiasi testo di Yuval Noah Harari, ovvero che – tra tutte – è stata la facoltà dell’immaginazione ad averci permesso di distinguerci dalle altre specie.
Dato che compassione e immaginazione hanno ambedue sede nel cuore, viene da pensare che l’evoluzione naturale della specie sia proprio nella direzione del cuore.
La specie compassionevole
Per dirla in breve, secondo Dacher Keltner, è stata la vulnerabilità dei nostri figli a rendere la compassione uno dei tratti distintivi della nostra specie.
Se ci pensi un attimo, è una riflessione interessante: a differenza delle altre specie, noi alla nascita non siamo in grado di badare a noi stessi da soli. Insomma, siamo vulnerabili e dipendiamo completamente dagli altri: per mangiare, scaldarci, pulirci e anche muoverci.
Le riflessioni di Keltner si muovono dalle ricerche di Darwin, in particolar modo dalla tesi, esposta in “The descent of man”, in cui sostiene che la simpatia (syn-pathein, ovvero sentire insieme, la compassione appunto) è il nostro istinto più forte.
Si potrebbe obiettare, ma in effetti, se pensiamo a quello che accade nel nostro sistema (tra neuroni specchio e sistema vagale) quando soffriamo o quando vediamo soffrire qualcuno, possiamo dire di essere “cablati per una profonda empatia”.
In che senso? Gli studi fatti al GreaterGood Center, in cui venivano mostrate foto di persone sofferenti, hanno dimostrato che quando vediamo qualcuno che soffre, soffriamo anche noi e siamo spinti a desiderare di alleviare quel dolore con la cura, sia in noi che negli altri.
Un sano egoismo? No. Si potrebbe pensare che siccome soffro perché soffri tu, allora voglio alleviare la tua sofferenza per stare meglio io, eppure non è così. Altri studi hanno dimostrato che il nervo vago si aziona quando vediamo persone sofferenti e si attenua quando pensiamo all’orgoglio personale, cioè a noi stessi o all’identificazione in gruppi, che esclude altri.
Anche la neurochimica è sulla stessa linea, se pensiamo ad esempio all’ossitocina (che non agisce solo nelle donne): è stato dimostrato che spruzzandola è possibile indurre altruismo.
Insomma, aveva ragione Aristotele: siamo “Animali sociali”.
Socialità, Specie e Immaginazione
In un altro studio riportato, quello condotto da Nicholas Christakis e James Fowler, è stato anche dimostrato che tra gli adulti tutto è contagioso (oggi forse diremmo “viral”). In particolar modo le emozioni positive e prosociali.
Di fatto la questione della compassione, quella simpatia darwiniana, torna anche nel luogo della più profonda interazione sociale, ovvero quando ci troviamo a scegliere il partner. Lo dimostra un ulteriore studio, quello che David Buss ha guidato su più di 10000 persone di 37 diversi paesi.
Il risultato? Quello che cerchiamo è la gentilezza.
Quando parliamo di creare rete, di ritrovarci e riconoscerci in famiglie, comunità o società abbiamo bisogno di sentirci accolti, visti, rispettati e soprattutto al sicuro. E a quanto pare la gentilezza riassume tutto queso, perché descrive il carattere di persone che sanno avere empatia, quindi… compassione.
Oltre a ciò dobbiamo considerare anche un’altra facoltà che ci è stata evolutivamente utile: l’Immaginazione.
Lo ribadisce diffusamente Harari nei suoi libri: secondo lo storico (e professore universitario) quello che ci ha permesso di “vincere” la partita dell’evoluzione, contro le altre specie è stata la capacità di unirci in comunità grazie alla creazione di miti e storie (come le mitologie e le religioni) in cui ci siamo riconosciuti anche senza conoscerci.
Immagina: qualche milione di uomini in tutta la terra, che si incontravano chissà dove e non si conoscevano. Come facevano a sapere se potersi fidare? In base a cosa potevano costruire una rete? Secondo Harari la risposta è stata quella di creare miti in cui potersi riconoscere anche se non ci si conosceva personalmente.
Miti che creano empatia, insomma.
Se ci pensi è ancora così: ci riconosciamo in ideologie, sport, politica, orientamenti di vario genere. Ci serve per poter creare feeling, intesa, riconoscerci e fare “unione”.
Immaginazione e Compassione, che sono ambedue capacità del cuore (sul fatto che l’immaginazione è del cuore ho scritto molto), sembrano essere le facoltà su cui puntare e costruire la prossima evoluzione della Specie.
Che sia la volta buona per andare verso una “Specie del cuore”.
Per approfondire:
➠ Filosofia della Specie (TAG)
➠ Filosofia della Specie (PAGINA)
➠ “GreaterGood Center – ricerca sulla specie della compassione“ (ARTICOLO ESTERNO in ENG)
➠ “GreaterGood Center – ricerca sulla specie della compassione“ (TRADUZIONE in ITA)
➠ “L’Immaginazione è del Cuore“ (TAG)
➠ “L’Immaginazione è del Cuore“ (ARTICOLO)
➠ Immaginazione e Evoluzione (ARTICOLO)
➠ “Homo Deus“, Yuval Noah Harari, Bompiani (LIBRO)
➠ RadioSAPIENS, rubrica sulla Filosofia della Specie (PAGINA FB MatteoFicara.autore)
➠ RadioSAPIENS (CANALE YOUTUBE)
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