
Dopo “Alice nel Paese delle Meraviglie”, Lewis Carroll si è divertito con un secondo romanzo, la continuazione del precedente, dal titolo “Attraverso lo Specchio”.
Più difficile e “romantico”, con le sue fosche atmosfere, ha permesso di certo alla Disney ed a Tim Burton, di giocare un po’ di più con la storia di Alice (soprattutto in quest’ultimo caso, con il tema di “Alice regina”).
Ma al di là dei moltissimi giochi di parole, degli intrecci narrativi ed intrighi personali, da questo secondo volume prendo in prestito il tema del “passaggio al di là dello specchio” e lo rileggo all’interno della cornice di ricerca della Filosofia del Profondo.
Che cosa ci insegna, Alice, quando attraversa lo specchio?
Attraversiamolo anche noi e scopriamolo insieme…
Cosa c’è nello Specchio?
Mi piace fare spesso questa domanda quando tengo i seminari in giro per l’Italia. Prima che ti scriva le risposte, se vuoi, puoi alzarti ed andare davanti al tuo specchio a dare un’occhiata, così, proseguendo con la lettura, lo farai in modo più consapevole. Dai, ti aspetto…
Bene. Ci sono diverse risposte possibili, naturalmente, ma quella che ricevo più spesso è “Me stesso”. Talvolta i più svegli intuiscono che nella mia domanda si nasconde qualcosa ed abbozzano risposte del tipo: “La mia immagine”.
Al di là del fatto che una risposta plausibilmente corretta potrebbe essere: “Vedo l’immagine riflessa della mia immagine”, c’è anche da dire che nello specchio c’è anche tutto il resto: l’ambiente circostante, ad esempio.
Il fatto che la maggior parte delle persone non se ne accorga neanche è indicativo di una nostra terribile abitudine: non vedere altro che noi stessi.
La pandemia del giudizio
Questa miopia speciale e selettiva deriva dalla nostra abitudine di mettere noi stessi in ogni cosa. Ce ne accorgiamo subito, basta chiedersi delle cose banali come:
com’è stato il tuo ultimo viaggio?
com’era il pranzo di oggi?
In un attimo, ci ritroviamo a rispondere con dei giudizi del tipo: “faticoso!”, oppure “buono!”. Ma in entrambi i casi abbiamo risposto ad un’altra domanda, qualcosa come: “che cosa ne pensi, tu, di quella determinata cosa?”.
Per rispondere a questa domanda, come già detto, è necessario esprimere un giudizio.
Kantianamente (e non), possiamo definire il giudizio come il momento in cui, ad un contenuto esperienziale (erlebniss), sia esperienziale che logico (il vissuto più il concetto) o solamente logico, diamo un “nome“, ovvero – usando la terminologia dell’insiemistica – rendiamo tutto il contenuto come l’argomento di un insieme ed etichettiamo l’insieme con un codice di riconoscimento.
Il viaggio, per cui, sarà “faticoso”, perché estraiamo il contenuto esperienziale dell’insieme “quel-determinato-viaggio” e gli diamo una nostra interpretazione.
Per rispondere correttamente alle domande di sopra, dovremmo dire qualcosa di molto empirico, come: il viaggio è stato “x” numero di chilometri, con le tappe “y”, “z”, “q”, etc…
Ovvero: il viaggio non può in alcun modo essere predicato come “faticoso”, mentre questo è il nostro modo di averlo esperito.
Questo esercizio del giudizio è equivalente ad una pandemia: estendiamo il giudizio che abbiamo delle cose, sulle cose stesse. In questo modo, però, gli oggetti perdono la loro identità e, con essa, quell’unicità che li rende “vivi”.
Ce ne possiamo accorgere in un attimo, basta chiedersi:
quante e quali sono le cose alle quali non fai più caso?
Ognuna di esse testimonia un pezzettino della realtà circostante che è morto, perché privato della sua unicità, sovrastato dall’immagine di noi stessi sulle cose, dal nostro apparato giudicante, spesso “pre-giudicante”.
Attraverso lo specchio
Alice ha il coraggio – simbolico – di attraversare lo specchio. Questo le dà accesso al Paese delle Meraviglie (nome non a caso: mirabilia, ovvero “ciò che si rende mirabile, visibile”), in cui ha la possibilità di parlare con i fiori, il gatto (stregatto), gli insetti (il brucaliffo) ed anche i mazzi di carte (pericolosissimi! ^_^ ).
Attraversando lo specchio, cioè, Alice ci insegna che togliendo “noi stessi” dalle cose che ci circondano, noi restituiamo loro la dignità che la vita stessa gli ha dato e, con essa, anche un’autonomia da noi (dalla nostra attenzione ed energia), che li svincola e permette loro di tornare alla vita.
Alchemicamente parlando, questo atto comporta anche un enorme alleggerimento di zavorre psichiche, le stesse attraverso le quali tenevamo in piedi tutta la struttura della realtà percepita, al posto della realtà “vista”.
Questa energia torna nelle nostre riserve e non solo: se prima la realtà attorno era morta, come tale non poteva nutrirci in nessun modo, mentre ora che le abbiamo restituito la sua vita, essa diventa nutriente.
In che modo, una realtà “al di là dello specchio”, può nutrirci?
A questa domanda iniziamo a cercare di dare una risposta nel prossimo articolo sul tema: La Filosofia del Cuore. [1/3 L’Amore non è un verbo da coniugare].
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