
L’immaginazione è una facoltà del pensiero profondo, che ci permette non solo di vedere e pensare, ma anche di conoscere tutto ciò che non segue le regole della logica. L’approccio immaginale è un modo di fare che opera in questa direzione.
Spesso nei miei articoli trovi parlare dell’approccio immaginale.
O magari solo dell’Immaginale, ma ad ogni modo forse è arrivato il momento di darne qualche informazione in più, per comprendere che cos’è, come funzione e soprattutto a cosa serve.
Origini dell’Immaginale
Prima ancora di parlare di un “approccio immaginale” è bene comprendersi sul cosa sia l’immaginale in sé. Qualcosa ho già scritto, al riguardo, nell’articolo-tributo dedicato ad Henry Corbin, ma riprendiamolo rapidamente.
La parola “immaginazione” che oggi molto spesso si usa con sufficienza, ha le sue origini nel temine sufi “himma”, il cui significato è “il potere creatore del cuore”. Sappiamo ciò proprio dalle ricerche di Henry Corbin, che vennero poi diffuse molto anche da James Hillman.
“Attraverso la forza dell’immagine, che si esprime come sintomo, […] L’uomo naturale, che si identifica con lo sviluppo armonico, l’uomo spirituale, che si identifica con la perfezione trascendente, e l’uomo normale, che si identifica con l’adattamento pratico e sociale, deformati, si trasformano nell’uomo psicologico, che si identifica con l’anima“
– James Hillman
Questo recupero etimologico restituisce l’immaginazione al suo regno naturale, quello del cuore, ma non ci aiuta ancora a comprendere in che modo possa calarsi nel quotidiano, rendendosi utile.
L’approccio Immaginale
Utilizzare un approccio immaginale significa, anzitutto, lavorare con le immagini.
Ma un lavoro con le immagini può avvenire secondo tantissime modalità: un lavoro grafico, pittorico, cinematografico, scultoreo o comunque artistico; un lavoro eidetico, uno di carattere più introspettivo e psicologico ed uno, infine, più “estatico”.
Forse il termine che raccoglie ognuno di questi generi è la parola “estetico”, ovvero che riguarda l’aisthesis, che erano i sensi di percezione (e che, guarda caso, gli antichi greci consideravano appartenenti al cuore), ma io preferisco la parola “estatico”, perché oltre a riguardare la percezione, un lavoro immaginativo riguarda gli stati di estasi.
Cosa sono le estasi?
In teoria uno stato di estasi è uno stato in cui “siamo fuori”, ma andando ad approfondire, si comprende ben altro.
L’immaginale e il Profondo
Ciò che può essere “fuori” è la nostra coscienza, l’io osservatore, quel qualcosa che comunemente chiamiamo “io” ma che non sappiamo esattamente cosa sia. Quando la coscienza è “fuori” essa è in uno dei nostri “al di là” possibili, in uno spazio di “coscienza altra”, dove gli è possibile vedere e vedersi in un modo diverso.
Gli spazi di coscienza altra più conosciuti sono i sogni. Ma possiamo considerare anche tutti i momenti di estasi: da quella quotidiana (quando ci accorgiamo delle sincronicità, guardiamo le nuvole e scorgiamo qualcosa di particolare, quando riceviamo dei segni, nelle meditazioni o nei lavori simbolici) a quella – molto più potente – dei santi.
Momenti di estasi come quelli di Santa Teresa D’Avila sono istanti in cui siamo al di là della coscienza ordinaria, vicinissimi al piano di ciò che non è manifesto, dell’invisibile che – esattamente come accade nei sogni – approfitta della nostra maggiore vicinanza per manifestarsi.
Immagina che esista un intero universo invisibile che è allo stesso tempo, origine e copia di quello che vedi, una specie di negativo fotografico intangibile. L’immaginale è il luogo dove quel mondo si affaccia, diventa immagini, forme, eidola e si rende visibile.
Si parla di possibilità che si possono scorgere, di idee.
L’immaginale è lo specchio stesso, il confine tra i mondi, il ponte tra visibile ed invisibile. Secondo il mio modo di vedere le cose, infatti, esistono moltissimi mondi.
Nella nostra cultura siamo abituati a vederne principalmente due: il mondo dello spirito (possibilità) e quello della materia (fatti).
E nel mondo materiale, di certo, quel pezzettino di Spirito che “anima” i corpi e le cose, è un quantitativo di energia, un insieme di possibilità, che noi chiamiamo “anima”.
Lavorare con un approccio immaginale, quindi, significa lavorare col piano delle possibilità, nelle sue infinite forme immaginali e simboliche.
Gli immaginalisti
Lavorare in modo “estatico”, filosofico, con le immagini è uno strumento estremamente potente, ed oggi – almeno in Italia – ci sono molti “immaginalisti” che operano in modi simili, mai identici, con questo tipo di approccio.
E’ sicuramente importante e di spicco la scuola di “nonterapia” di Selene Calloni Williams, allieva diretta di Hillman, che io stesso adesso sto frequentando con curiosità, ma ci sono anche molti autonomi e tanti ne incontro nei miei viaggi che iniziano ad ascoltare le immagini (e quindi il cuore).
Personalmente ho avuto la fortuna di incontrare l’Immaginazione fin dall’infanzia, che mi veniva a trovare per dei “giochi magici” che potevo vedere solo io.
Ed ho poi avuto due importanti guide in questi luoghi: prima Sibaldi con i Maestri Invisibili, poi Selene Calloni Williams, che mi ha aiutato nel passaggio il passaggio da “immaginazione” a “immaginale”, ricordandomi il potere sciamanico dell’immaginazione.
Ma di certo le mie più grandi guide in questi regni, con una pratica iniziata nel 2010, sono Le Stanze dell’Immaginazione, sistema di pensiero divergente e visionario, che ti permette di allargare le prospettive e scegliere meglio.
pero in fondo tutti viviamo e lavoriamo con le immagini mentali e sentimentali…
mi piacerebbe avere un esempio chiarificatore
Hasan, eccomi a te.
Anzitutto grazie per aver letto ed aver manifestato il dubbio.
Intanto ci tengo a precisare che le immagini sono un linguaggio che, sì, viene codificato alla fine dagli emisferi e vissuto nelle viscere, ma appartiene ad un altro centro, il Cuore (così come ci informano i greci, che ponevano nel cuore l’aisthesis, e come ricordava Hillman).
Poi, un conto sono le immagini che “vediamo” ogni giorno: tutto appare come un’immagine, se vogliamo essere pignoli; ed un altro conto sono quelle immagini che si vanno a trovare o che si manifestano con un processo che potremmo chiamare di “caccia all’Anima”.
Sono immagini che non parlano solo di sé come di forma, ma che hanno un segreto da donare, nascosto al di là della forma, nel contenuto.
Molto spesso può capitare, ne leggevo qualcosa anche questi giorni su “Presenze Animali” di Hillman, che ci sono dei lavori dove si vanno a prendere le immagini e le si costringe ad uscire dal loro ambiente naturale, portandole qua, in questa realtà, cercando di interpretarle, vivisezionarle, capirle.
E’ un approccio “scientifico”, se vuoi, che però non considera la vita presente in quelle immagini (per la quale ci vorrebbe più un approccio sciamanico).
E così, la “non-storicità” è uno dei cavilli su cui possiamo poggiare l’approccio: quanto vediamo o viviamo negli “spazi d’Anima” (come leggi nell’articolo si intendono i sogni, esperienze di estasi e simili dove la coscienza accede a piani altri) non deve necessariamente essere letto con gli occhi dell’abitudine e né con la mente giudicante al servizio (o alla ricerca) di una presunta “scientificità o storicità”.
Sono immagini che vanno lette come rappresentanti di dinamiche interiori, sono dialoghi dell’Anima che si presentano col linguaggio delle forme eidetiche.
Anche nelle Costellazioni, ad esempio, mi è capitato spesso di vedere che quanto veniva fuori dal “campo morfogenetico” veniva poi letto come un “accaduto”, ovvero preso storicamente, mentre nelle Costellazioni ad approccio immaginale questo non avviene: è messo in chiaro, col richiamo al mito ed alla fiaba, che quelle sono dinamiche extra storiche, trans-mentali, vissute dall’Anima come vere, non necessariamente dall’io o dal mondo.
Bon… spero di averti colmato qualche dubbio.
In caso sono comunque a tua disposizione! ^_^
Penso che la cosa funzioni se esistono sensibilità in continuo allenamento, rispetto per le cose e predisposizione all’approfondimento dell’immagine. Non deve essere il soggetto a dettare le regole del gioco, ma l’oggetto a crearne volta per volta. Con altre parole, si deve guardare (ma poi deve venire spontaneo), non vedere, ovvero imporre la propria personalità sulla visione.
Dario, ho letto con piacere il tuo commento.
Personalmente scelgo con attenzione le parole che vado ad usare e quindi resto sul “vedere” piuttosto che sul “guardare”, che secondo me viene solo dopo.
Di fatto “vedere” anche (e non solo) etimologicamente significa “trovare”, quindi è l’approccio in assoluto più neutro al lavoro con le immagini che, sì – in accordo con quanto scrivi (e ne puoi trovare diffusi articoli nel mio blog) – richiede un certo tipo di sensibilità.
Anche se, ormai con l’esperienza di sette anni con Le Stanze dell’Immaginazione, ho appreso che in realtà l’accesso alla “visione” è per tutti, se si seguono delle “regole”.
Resta che un allenamento lo rende sempre più efficace ed approfondisce il livello della visione.
Sia nelle Stanze, comunque, che in OZ – Oltre Zen, il mio primo impegno è guidare chi lavora con me “fuori dal giudizio”, per poter vedere (e quindi trovare) le immagini per quello che sono, ri-conoscerle e comprenderle (cum-prendere = portare dentro, nel cuore | che è il centro del pensare con la immagini).
Quando sono state portate dentro è il tempo di guardarle, che etimologicamente significa “proteggere” e che è vicinissimo (come radice) a guarire, derivante dalla radice germanica “var-” che, per chiudere il giro, sta nel verbo “vedere” ^_^
Quindi: vedere come trovare, per accogliere/comprendere e guardare/guarire, che è sempre un vedere (ma ad un secondo livello, quando l’immagine, come “anima”, è stata portata dentro) ^_^
Matteo,
grazie per questo stimolante contributo sull’approccio immaginale.
Ti leggerò con interesse anche in futuro.
Ti segnalo il mio sito e ti auguro Buon Tutto il Possibile
Ugo
http://www.ugolocatelli.it
Grazie Ugo del commento e del link.
Ho iniziato a sbirciare il profilo, mi sembra molto denso!
Sono felice tu mi abbia scritto ^_^
Sono senza parole. Ma “sono”.
Peccato che tu non abbia per nulla considerato la “pedagogia immaginale” su cui ho pubblicato molto da anni, specie nel 2002 con l’opera dello sguardo
È un onore trovare un suo commento al mio articolo, Paolo.
Conosco solo in parte il suo operato, mi spiace.
So che è un esponente importante nell’ambito della pedagogia immaginale, mi parlano tutti molto bene del suo lavoro, ma non mi sono ancora avventurato nella scoperta dei suoi libri.
Spero di riuscire a rimediare nei prossimi periodi.